Qualche giorno fa stavo girovagando su Facebook e mi sono imbattuta in un articolo davvero interessante di quotidianosanita.it  . Viene presentata una ricerca svolta poche settimane fa dall’Università Tor Vergata di Roma su come stanno vivendo l’emergenza Coronavirus gli operatori sanitari. Voglio condividere con te la mia riflessione e alcuni spunti per comprendere meglio la situazione attuale ed in parte, quella futura.

Il risultato dello studio ha evidenziato come il personale sanitario che ha preso parte alla ricerca, riporti sintomi che vanno dalla depressione grave, ansia, insonnia, stress psicofisico fino al disturbo post traumatico da stress. Inoltre, è stato mostrato che risultano essere più a rischio medici ed infermieri in prima linea, le donne giovani e coloro i cui colleghi si sono ammalati o sono deceduti a causa del virus. Quindi, come hanno dimostrato anche altri studi condotti in Cina, nel mezzo dell’emergenza sono stress, trauma, depressione e ansia il principale tormento della popolazione, in particolare, degli operatori sanitari.

Sopravvivere

Per arrivare alla domanda centrale di questo articolo faccio riferimento anche ad un’intervista di Fanpage.it, fatta a Damiano Rizzi, psicologo e presidente di Fondazione Soleterre. Anche in questo caso ti allego l’intervista a fine pagina.

 “C’è l’idea di non aver fatto abbastanza e anche di non meritarsi di sopravvivere. “senso di colpa

Questo è quanto afferma il Dott.Rizzi in prima linea al Policlinico San Matteo di Pavia per portare ascolto e supporto psicologico agli operatori sanitari. Nell’intervista il Dott. Rizzi spiega come, con il lento placarsi dell’emergenza, stiano emergendo sempre di più situazioni traumatiche, in particolare, di quello che in psicologia viene definito trauma vicario. Ciò significa che, l’idea che pervade il personale sanitario, è di non aver fatto abbastanza e di non meritarsi di sopravvivere. Per alcuni può essere un pensiero più o meno conscio ma in ogni caso sintomatico, ed è un grande fattore di rischio per la salute della persona.

Da entrambe le interviste emerge la necessità di interventi mirati per alleggerire il carico emotivo oltre che, quello lavorativo. Allora approfondiamo meglio cosa significa e, cosa comporta, il senso di colpa per sopravvivere all’emergenza Covid-19.

Trauma vicario

Il trauma vicario è la conseguenza di un’esposizione indiretta ad un evento traumatico che riguarda una o più persone con cui si instaura una relazione empatica e di cura. Ad esempio, gli operatori sanitari che possono trovarsi a contatto prolungato con persone traumatizzate dal rischio di perdere la vita, creano una relazione d’aiuto basata sull’ empatia. Il carico emotivo di questa relazione, a volte, può essere davvero difficile da gestire e, mantenere un atteggiamento empatico ma neutrale risulta impossibile. La conseguenza primaria può essere proprio il farsi carico del trauma del paziente, vivendolo indirettamente e sviluppando sintomi tipici come: pensieri negativi intrusivi, senso di colpa, elevata risposta agli eventi stressanti ecc.

Il trauma vicario può essere confuso con il burnout ma, in realtà, sono molto diversi anche se legati tra loro.  Per comprendere meglio la loro relazione e le conseguenze vediamo cos’è il  burnout. 

Il Burnout

Il Burnout può essere definito come uno stato di esaurimento fisico, emozionale e mentale che si sviluppa a seguito di una protratta esposizione a situazioni lavorative emotivamente “cariche” (Maslach & Leiter, 2000).  Innanzitutto è bene evidenziare che la sindrome di burnout può colpire ogni genere di professione. Questo significa che non ci deve per forza essere una relazione di cura e, porta la persona che lo vive, a distaccarsi emotivamente dal suo lavoro. Il trauma vicario, invece, riguarda principalmente professioni d’aiuto e porta “il soccorritore” ad empatizzare eccessivamente con la vittima fino a vivere egli stesso il trauma.Burnout

Burnout e trauma vicario sono due facce della stessa medaglia. Infatti, vivere numerose situazioni emotivamente e psicologicamente stressanti che, ti portano ad assistere a morti, malattie e dolori può in un primo momento creare grande attaccamento alle vittime e al proprio lavoro. Ma, in un secondo momento, se il carico lavorativo ed emotivo non viene decompressato, l’eccessiva empatia può sfociare in un distaccamento emotivo dal proprio lavoro e dalle persone che ne fanno parte, portando alla sindrome di burnout. E’ una difesa naturale, umana. Penso che questo è uno dei rischi sanitari a cui si sta andando incontro ora. Pertanto acquisire più consapevolezza sul significato del burnout e sulle modalità di cura e prevenzione è un buon inizio per tornare ad umanizzare gli operatori sanitari. Perchè sì, sono esseri umani come noi.

Capiamo meglio… cosa comporta il burnout e come prevenirlo

La sindrome di burnout è caratterizzata da 3 dimensioni, quindi da 3 manifestazioni principali: esaurimento, disaffezione lavorativa e ridotta efficacia professionale.

Per esaurimento si intende la perdita di energia da investire sul proprio lavoro e nel rapporto con le persone. La disaffezione consiste nella perdita di coinvolgimento nelle proprie attività lavorative, si lavora per automatismi. La ridotta efficacia professionale porta la persona a percepire inutile la sua presenza sul luogo di lavoro e la sua azione tende a ridursi perché ritenuta in ogni caso poco efficace.

Prevenzione e caratteristiche del luogo di lavoro

Il burnout, come ogni altra sindrome psicologica, varia in funzione del contesto in cui la persona si trova e delle caratteristiche personali. In particolare, sono state individuate 6 aree, da Maslach e Leiter nel 2005, da tenere monitorate perché determinanti nell’insorgenza di questa sindrome. Le sei aree riguardano: il carico quantitativo del lavoro, il potere decisionale che il lavoratore ha sulle sue mansioni, le ricompense economiche e sociali, la qualità delle relazioni sul luogo di lavoro, una politica organizzativa giusta ed equa, la corrispondenza tra valori del lavoratore e valori aziendali, la coerenza tra il lavoro e la persona. Quindi, lavorare affinché queste aree siano più o meno equilibrate è fondamentale per prevenire il burnout.

Prevenzione e caratteristiche personali

Gli aspetti che ti ho citato qui sopra dipendono per lo più dall’Istituzione organizzativa ma, la persona, può lavorare su alcune caratteristiche personali che possono agevolare il suo benessere a lavoro. Tra queste troviamo l’affettività negativa, un tratto di personalità che spinge il lavoratore a provare stati emotivi negativi, a vedere il mondo attraverso una lente grigia avvicinandolo più facilmente al burnout.

Per far sì che questa visione negativa della realtà migliori è un buon punto di partenza potenziare il proprio senso di efficacia, il proprio coinvolgimento in attività sociali e il mantenere relazioni di qualità. E ancora, dedicare del tempo a se stessi, imparare ad accettarsi e comprendersi, lavorare per aumentare la propria resilienza e il proprio sguardo ottimistico al futuro. Tutti questi fattori possono essere protettivi.chiedere aiuto Anche se si è nel bel mezzo della sindrome di burnout è utile lavorare su questi punti ma, l’aiuto di un esperto psicologo \ psicoterapeuta è la via più efficace per ritornare ad una situazione di equilibrio. In ogni caso a queste situazioni psicopatologiche c’è sempre una soluzione è c’è sempre la possibilità di tornare ad uno stato di benessere psicofisico, l’importante è non temere di chiedere aiuto.

– E tu riesci a chiedere aiuto quando ne hai bisogno? –


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Come sempre ti lascio qui link \ materile utile:

Intervista al Dott. Rizzi (Fanpage.it)

Articolo di quotidianosanita.it. segui quotidianosanita.it “Metà degli operatori sanitari in prima linea per il Covid con sintomi da stress post traumatico”

Grazie, Marti 🙂

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